|  | 
                        
                          | 
      Don Angelo 
                          Pantoni |  
                          | •  
      Biografia e note personali |  
                          |  |  
                          | Rocca 
      d'Evandro |  
                          | •   
      I - I primi secoli |  
                          | •   
      II - Il Cinquecento |  
                          | •  
           
      III - Il Seicento |  
                          | 
      
      •  
           
      IV - Il Settecento e 
      il   
          rifacimento della 
      chiesa |  
                          | •   
      V - L'Ottocento e il Novecento |  
                          | • 
       
      VI - Vicende del clero |  
                          | •   
      VII - Stato attuale delle chiese |  
                          | 
      •  
          
           
      VIII - Il Comune e la
       
          popolazione |  
                          |  |  
                          | Cocuruzzo |  
                          | • I 
      - Dalle origini al tardo 
           
         Seicento |  
                          | • 
       
      II - Dal Settecento 
      ai nostri     giorni |  
                          |  |  
                          | Mortola |  
                          | •
       Mortola |  
                          |  |  
                          | Camino |  
                          | 
      
      •
      
       Camino 
      e la Chiesa della SS.   
          
          Trinità sul Monte 
      Maggiore  |                                                                                                                                                                
                        
                          | 
      Don Angelo 
                          Pantoni |  
                          | •  
      Biografia e note personali |  
                          |  |  
                          | Rocca 
      d'Evandro |  
                          | •   
      I - I primi secoli |  
                          | •   
      II - Il Cinquecento |  
                          | •  
           
      III - Il Seicento |  
                          | 
      
      •  
           
      IV - Il Settecento e 
      il   
          rifacimento della 
      chiesa |  
                          | •   
      V - L'Ottocento e il Novecento |  
                          | • 
       
      VI - Vicende del clero |  
                          | •   
      VII - Stato attuale delle chiese |  
                          | 
      •  
          
           
      VIII - Il Comune e la
       
          popolazione |  
                          |  |  
                          | Cocuruzzo |  
                          | •  
           
      I - Dalle origini al tardo 
           
         Seicento |  
                          | • 
       
      II - Dal Settecento 
      ai nostri     giorni |  
                          |  |  
                          | Mortola |  
                          | •
       Mortola |  
                          |  |  
                          | Camino |  
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      •
      
       Camino 
      e la Chiesa della SS.   
          
          Trinità sul Monte 
      Maggiore  |  |  | 
   Rocca d'Evandro
  
   
           
  
       
      
      IV - II Settecento e il rifacimento della chiesa 
        
      Al principio del secolo accadde un fatto ritenuto 
      miracoloso, narrato nella relazione dell'arciprete Giuseppe Falese del 1 
      maggio 1723, concernente lo stato delle chiese, relazione firmata da tutti 
      i sacerdoti del luogo. Viene riferito che l'8 maggio 1707, essendosi 
      trasportata la statua di S. Rocco da S. Margherita nella Chiesa Maggiore 
      «per una necessità grande di questa Terra», un devoto essendosi recato 
      sull'imbrunire per venerare la statua, notò che bruciava la tovaglia della 
      bara (sic) del Santo. Andato per smorzare l'incendio «vidde che dalla 
      cicatrice del ginocchio della statua, scaturiva un liquore», gridò al 
      miracolo, accorse popolo, e tutti poterono vedere quanto era accaduto. Il 
      liquore  asciugato da un sacerdote con bambagia, durò a 
      scaturire «da mezzora in circa». La stoffa o fettuccia messa al ginocchio, 
      era pure bagnata di quel liquore e, con atto pubblico, fu messa in una 
      caraffina di vetro per essere conservata nel reliquiario. Veniva esposta 
      sull'altare nella festa di S. Rocco.  L'arciprete riferì sul fatto 
      all'abate Nicola Ruggi, ma questi non volle ammetterlo, perciò la 
      caraffina non si esponeva più, «ma il fatto fu verissimo e in quell'atto 
      fu risanato un paralitico che non si poteva muovere...». Di questo evento 
      che trova il suo corrispettivo in varie lacrimazioni odierne di statue e 
      immagini, documentate adesso da fotografie e magari da film, fu stesa il 9 
      maggio 1707, quindi il giorno successivo al caso insolito, una relazione 
      autenticata dal notaio Nicola Camposelli, della quale si è conservato il 
      testo in Archivio. In essa viene confermato che dalla piaga della statua 
      di S. Rocco «scorreva un liquore come se fosse manna e tutta la detta 
      piaga stava bagnata di d.° liquore». La posizione negativa dell'Abate, 
      come viene accennato in altre parti, derivava dalla riluttanza a 
      organizzare un processo canonico vero e proprio sul fatto riferito, che 
      sembra realmente accaduto, dato il concorso unanime delle testimonianze. 
      Per quanto concerne le visite canoniche, risulta di un certo rilievo 
      quella del 1722, fatta dall'abate Nicola Ruggi; infatti il prelato 
      all'arrivo si portò subito «recto tramite» al palazzo del marchese 
      Domenico Maria Cedronio, ove fu ricevuto dal figlio don Benedetto. Dal 
      palazzo, vale a dire dalla Rocca soprastante il paese, l'abate fu poi 
      condotto alla Chiesa Madre, sotto il baldacchino, con l'accompagnamento 
      del clero e del popolo, e la sera si ricondusse al palazzo marchionale, 
      ove dimorò pure il giorno seguente fin verso sera, quando posto termine 
      alla visita «maximas gratias agens», prese congedo dal marchese 
      dirigendosi alla propria sede di S. Germano. A proposito dei Cedronio si 
      può notare che nel 1655 furono riconosciuti dalla Curia Cassinese quali 
      legittimi eredi di Giov. Domenico Peloso, barone di Rocca d'Evandro e 
      Camino, morto ab intestato. Essi subentrarono nel dominio in quanto figli 
      della figlia del Peloso. La famiglia Cedronio, originaria di Roma, si era 
      stabilita nel Regno al tempo di Giovanna I, e a Napoli ne fu riconosciuta 
      la nobiltà, sia pure fuori seggio. Nel 1677 ottenne il titolo marchionale 
      sul feudo di Rocca d'Evandro, di cui era già in possesso. Questo titolo 
      risulta chiaramente espresso nei Registri dell'Archivio di M. Cassino fino 
      dal 1683, nella persona di Benedetto Cedronio. 
      Riprendendo il filo delle vicende locali, troviamo che 
      nel 1737 risulta arciprete don Angelo Camposelli, con bolla di nomina del 
      1736, che fu uno dei più attivi sacerdoti di questo tempo, come risulta 
      dai vari documenti a lui dovuti, e conservati tuttora nell'Archivio. Nel 
      1746 l'Abate venuto in visita, si portò alla casa del rev. Giuseppe de 
      Stefano, presso la nuova chiesa in costruzione; qui ebbe l'omaggio di 
      Antonio Maria Cedronio, commendatore dell'Ordine Gerosolimitano, venuto 
      col fratello Luigi. Il culto in quell'anno era esercitato 
      provvisoriamente nella piccola chiesa di S. Antonio Abate, che neppure si 
      trovava in buone condizioni. L'Abate rimproverò sul posto l'arciprete e 
      gli altri sacerdoti per lo stato della chiesa e del battistero ivi 
      trasferito, e amministrò la cresima «cum magna confusione ob angustiam 
      loci». Dopo aver visitate le altre chiese, si portò alla sede dei Cedronio, ove «factis mutuis ceremoniis», visitò l'oratorio privato, 
      trovandolo in ordine, vide anche le pitture di Antonio Maria Cedronio che 
      aveva studiato l'arte a Roma, e uscendo visitò pure la cappella esterna 
      di S. Barbara, di patrocinio del marchese, che vi nominava il cappellano, 
      al quale spettava il compito di celebrare 220 Messe annue. Si è accennato 
      alla ricostruzione della chiesa, e da una estesa relazione del già 
      ricordato arciprete Angelo Camposelli, si possono ricavare dati 
      sufficienti per quanto concerne tale vicenda. La vecchia chiesa era 
      stata demolita fino dal 1741 « perché minacciava mina, ed a fine di 
      ridurla a miglior forma, e renderla più capace per il Popolo». La nuova 
      costruzione fu cominciata il 9 maggio 1741, e fino a tutto il dicembre 
      1742 vi lavorarono i muratori, che operavano anche da scalpellini. 
      Venivano pagati a giornata con quattro carlini. Dire oggi, con una certa 
      approssimazione, quale sarebbe l'equivalente in moneta odierna, non è 
      certo agevole, perché a differenza di quei tempi, i valori monetari sono 
      in continua e rapida evoluzione. Si è già notato altre volte che il ducato 
      d'argento del Regno, era del peso di gr. 30, anche se d'argento non puro. 
      Il carlino essendo un decimo del ducato equivaleva a tre grammi 
      d'argento. Ma oggi tale metallo ha raggiunto valori altissimi, abnormi, 
      fino oltre seicento lire il grammo. Ma fermandosi alla quota cinquecento, 
      una paga d'operaio di quattro carlini, con tale ragguaglio, equivarrebbe a 
      seimila lire al giorno, oggi certo insufficienti, ma allora potevano 
      bastare, dato che le retribuzioni erano a quei tempi a livello minimo, ma 
      avevano un compenso, sia pure parziale, nel basso costo dei generi di 
      prima necessità.  Per quanto concerne i lavori murari troviamo nella 
      relazione presa in esame, che l'appalto della fabbrica, gestita fino 
      allora localmente, si direbbe «in economia», fu assegnato nel gennaio 
      1743 a m.° Matteo Correnti di Roccamonfina, che si impegnò a completare la 
      chiesa per il solo rustico entro tre anni, e l'Università o Comune si 
      obbligò a corrispondergli 550 ducati, equivalenti secondo la valutazione 
      sopra accennata a circa nove milioni di lire, ma è ben noto che il costo 
      dei lavori murari, sia per gli stipendi, sia per i materiali occorrenti, 
      ha raggiunto oggi livelli assolutamente non confrontabili con i costi di 
      un tempo. La relazione nota ancora che nella fase precedente l'appalto 
      erano stati spesi 630 ducati. L'appaltatore ne aveva avuti 200 per avviare 
      il lavoro; quindi in tutto vi era una spesa di 830 ducati da ripartirsi 
      tra le cappelle per 700 ducati, e l'Università per 130 ducati. Piace 
      riportare queste cifre per mostrare come un tempo anche in piccoli 
      centri, si provvedeva al finanziamento di lavori di una certa rilevanza. 
      Va tenuto conto, inoltre, che le cappelle avevano un controllo 
      finanziario assiduo, e che si doveva render conto annualmente da parte 
      dei rispettivi procuratori, fino alle frazioni del ducato. Ma, a parte il 
      lavoro murario, per il completamento del quale occorrevano 350 ducati, ce 
      ne volevano ancora mille per le rifiniture, con l'aggiunta di altri mille 
      per le pitture, sculture, dorature. In tutto occorrevano 2.490 ducati, 
      ragguagliabili, secondo il valore attuale dell'argento, a circa 38 
      milioni di lire, ma che ai prezzi d'oggi equivarrebbero a una cifra almeno 
      cinque volte superiore. Si deve aggiungere che non si conosce chi preparò il disegno per il nuovo edificio, 
      che in altra relazione è riferito genericamente a un gruppo di periti, 
      vale a dire a gente bene esperta in materia, anche se non munita di 
      titoli ufficiali, come spesso accadeva a quei tempi. In altra relazione 
      dell'aprile 1744 sempre dell'arciprete Camposelli, si apprende che per 
      quanto riguarda i preventivi di spesa, per la parte muraria e le 
      stuccature aveva presentato il conto m.° Matteo Correnti di Roccamonfina, 
      per il lavoro di scalpello «li Mastri scalpellini di Pesco Costanzo». 
      Alla pittura e doratura aveva provveduto «l'Ecc.mo Sig. Comm. Cedronio 
      Professore di Pittura». Si è già accennato più sopra che il personaggio 
      in parola aveva mostrato all'abate sue pitture eseguite negli ambienti 
      della Rocca, delle quali forse può sussistere ancora qualche avanzo, nei 
      locali un tempo d'abitazione, adesso crollanti e diroccati. Una relazione 
      dell'agosto 1744, a carattere più ufficiale, mette in luce particolari 
      curiosi. Sembra destinata alla Curia Romana, in quanto si fa menzione di 
      «E.mi e R.mi SS.», ma è a nome «della Comunità e Popolo della Terra di 
      Rocca d'Evandro Diocesi Cassinese». La chiesa fino dal 1737 era stata 
      riconosciuta incomoda e angusta, sia per i sacerdoti che per il popolo. 
      Nel 1741 i Sindaci avevano chiesto licenza all'Abate di allungare 
      l'edificio, in modo che il coro trovasse posto dietro l'altare maggiore, 
      mentre fino a quel tempo era stato su un palco sopra l'ingresso. Si 
      voleva pure stabilire una cupola all'incrocio dei due bracci della 
      chiesa. Esiste tuttora, si può aggiungere, questa richiesta di procedere 
      al progettato ampliamento, che prevedeva la sola scoperchiatura 
      dell'edificio esistente. L'autorizzazione fu concessa nei limiti del 
      lavoro progettato, e per una spesa di mille ducati, reperibili negli 
      avanzi di bilancio delle cappelle. La relazione in parola, che deve essere 
      pure del Camposelli, dice poi che i Sindaci non rispettarono i limiti 
      della concessione, ma fecero demolire tutta la chiesa, avviandone la 
      riedificazione, ma «con pianta, disegno e struttura tale, che riuscirà 
      molto più angusta certamente di prima, particolarmente nella nave di mezzo 
      per i pilastri di nuovo appostici...». Ma vi è di più, in quanto si nota 
      che i Sindaci avevano demolito la chiesa prima di chiedere la facoltà di 
      ampliarla, mettendo così l'autorità ecclesiastica di fronte al fatto 
      compiuto, un metodo questo che anche oggi trova qualche applicazione. Nel 
      1746 i tre Sindaci del luogo fecero domanda all'Abate di poter utilizzare 
      gli avanzi del bilancio delle cappelle per il completamento della chiesa. 
      L'abate Antonio Capece concesse che si potesse trarre «qualche soccorso 
      dalle cappelle, trattandosi di un'opera pia». Nel 1755 i Sindaci 
      chiesero all'Abate che essendo già state costruite tre cappelle della 
      nuova chiesa, vi si potesse dir Messa, per attenuare gli inconvenienti 
      causati dalla ristrettezza dello spazio nella chiesa di S. Antonio. Due 
      dei Sindaci firmano: Giuseppe Giannetti e Antonio Marcone, il terzo, 
      Marcantonio Spiridillozzi si limita al segno di croce, cosa questa assai 
      comune, al punto che talvolta tutti i Sindaci di un determinato luogo, 
      erano analfabeti, ma indubbiamente bene attenti agli interessi della 
      comunità che rappresentavano. Un riflesso caratteristico delle vicende 
      della costruzione della nuova chiesa si ebbe in occasione del giubileo del 
      1750, in quanto i confratelli del SS. Sacramento avevano riservato cento 
      ducati allo scopo di preparare vesti, rocchetti, stendardi, e quanto 
      occorreva, per muovere in gruppo verso Roma. Ma i Sindaci protestavano 
      perché con tale spesa si sarebbe pregiudicato il proseguimento della 
      costruzione della chiesa, L'abate Capece trasmise la vicenda alla Curia, e 
      il Vic. Gener. Mastrilli, in data 7 gennaio 1750, decise salomonicamente 
      che la confraternita pagasse entro otto giorni i 96 ducati che doveva 
      esborsare per la chiesa, «quale pagamento adempiuto non s'impedisca 
      l'andata all'anno santo, come si è praticato negli altri Anni Santi, acciò la devozione non si diminuisca». La nuova chiesa risulta 
      praticamente ultimata nella visita del 1761. L'Abate si portò infatti 
      alla chiesa matrice «sub titulo S. Mariae Maioris et S. Antonini», e si 
      assise al faldistorio presso l'altare maggiore. Arciprete era sempre don 
      Angelo Camposelli, e vi erano pure altri diciannove sacerdoti, oltre due 
      diaconi e due iniziandi, un sacro presidio, quindi, abbastanza 
      consistente. L'altare maggiore, sotto il doppio titolo già menzionato, 
      aveva la manutenzione dell'Università, come confermò il Sindaco e dottore 
      fisico Domenico Mascioli. Il coro aveva posti mobili, mancando il 
      rivestimento. Vi erano pure l'altare del Rosario con confraternita, quello 
      di S. Maria delle Grazie, pure con confraternita, l'altare di S. Antonio 
      di Padova a quello di S. Rocco. Dal lato del Vangelo era l'altare della 
      Concezione, di patronato del cav. Ottavio Cataldi, nativo del luogo, a 
      quel tempo a Vienna in Austria, a servizio dell'imperatore. L'atto di 
      patronato era in data 6 novembre 1754. L'altare del SS. Sacramento 
      risultava nel luogo ove un tempo era quello di S. Antonino, trasferito 
      all'altare maggiore, come si è già accennato. Esisteva pure, e ben 
      dotata, la confraternita del SS. Sacramento. La chiesa era stata costruita 
      a spese del Capitolo, dei luoghi pii, e col lavoro manuale 
      dell'Università, specialmente per il trasporto dei materiali occorrenti. 
      L'edificio risultava coperto a volta e decorato con stucchi. La chiesa 
      attuale ha mantenuto integralmente o quasi le linee che le furono impresse 
      in  questo tempo. La manutenzione dell'edificio, come si è già detto, 
      spettava all'Università, mentre per quanto concerneva il culto provvedeva 
      «la reparazione» con proprio procuratore, confermato, anno per anno, 
      dalla Curia di S. Germano (Cassino). Detto ufficio aveva una 
      disponibilità di circa quaranta ducati annui, che a noi sembrano 
      piuttosto scarsi, ma che allora bastavano, sia pure sotto un'attenta e parsimoniosa amministrazione. Il coro ligneo fu eseguito a epoca più 
      tarda; infatti se ne parla solo nel 1773, in una supplica dell'arciprete 
      Maurizio Cataldi e degli altri quattordici capitolari, affinchè si 
      potesse pagare sia l'artefice del coro, del quale si tace il nome, sia 
      quelli che avevano fornito i legnami a credito. A seguito della risposta 
      del Vicario Generale che chiedeva quale fosse l'ammontare della spesa, e 
      quale fosse il supero o attivo delle cappelle, il Vicario Foraneo rispose 
      che occorrevano 37.5 ducati, mentre il supero delle cappelle era di 13 
      ducati. Bisognava quindi impegnare anche i residui di bilancio dell'anno 
      corrente e del successivo. Pure qui si coglie sul vivo la procedura 
      dei finanziamenti, sempre attenta alle effettive disponibilità locali, in 
      quanto a quei tempi non si poteva contare in alcun modo su elargizioni o 
      contributi provenienti dal di fuori. Un ultimo strascico delle spese per 
      la nuova chiesa si ebbe nel 1775 con la richiesta del Capitolo, 
      presentata dal procuratore del medesimo, d. Giambattista Pagliolo, di 
      poter vendere venticinque alberi di querce, situati nella selva della 
      chiesa, come anche altri alberi infruttiferi, per fornire la sacrestia di 
      sacri arredi. L'ultima visita canonica di questo secolo è del 1797, alla 
      vigilia degli sconvolgimenti di varia portata, provenienti dalla Francia. 
      Ma a quel tempo non vi erano ancora riflessi locali; tutto procedeva come 
      in passato. L'Abate, arrivando verso sera, si portò infatti «in Palatium 
      Illustri Marchionis Cetronii Possessoris eiusdem Terrae, qui magna 
      humanitate cum toto suo comitatu et familia hospitio excepit, et opipare 
      tractavit ». Il giorno seguente l'Abate si diresse alla Chiesa 
      Maggiore, e alla porta del paese trovò il clero in cotta, con la croce e 
      il pallio, che lo accompagnò processionalmente alla chiesa. A quel tempo 
      vi erano quindici sacerdoti con il già ricordato arciprete Cataldi, oltre 
      due suddiaconi, due accoliti e due novizi. Gli altari della nuova chiesa 
      risultano quelli già menzionati più sopra, con le rispettive 
      confraternite. Quanto alla chiesa nel suo insieme, l'Abate prescrisse che 
      fossero messi i vetri entro il mese, sotto pene ad arbitrio. Sorprende che 
      per un edificio oramai completato da alcuni decenni, non avessero ancora 
      provveduto a una tutela così necessaria, e si aspettasse un'ordine con 
      pene annesse in caso d'inadempienza. Riportandosi alla rocca marchionale 
      l'Abate amministrò la Cresima ai figli del marchese, dopo averla già 
      amministrata a quelli del popolo nella chiesa principale. Caratteristici 
      alcuni decreti disciplinari emessi per la circostanza. La processione del 
      SS. Sacramento deve farsi «per semitas publicas mundas, et decenter 
      ornatas». Le processioni e le altre funzioni dovevano essere fatte dopo 
      la recita del Divino Ufficio e non prima. Ogni quindici giorni doveva 
      essere tenuta una conferenza su casi morali e liturgici, alla quale tutti 
      dovevano intervenire, compresi i chierici. Gli atti capitolari, infine, si 
      dovevano fare a voti segreti, nel rispetto tuttavia dei diritti 
      dell'arciprete. Inoltre dal monte comune si dovevano prelevare trenta 
      ducati per pagare l'economo che aiutava l'arciprete; compenso certo 
      piuttosto modesto, ma che integrava quanto spettava al sacerdote 
      incaricato, come membro del Capitolo e da incerti vari. Ma la condizione 
      economica del clero locale, certo non troppo brillante, sarà esaminata in 
      seguito, nel quadro delle risorse della Chiesa e relativo Capitolo.   
      A. Pantoni, 
      Roccadevandro, IV, «Bollettino Diocesano» di Montecassino,  
      Anno XXXV, 2/1980, pp 186-194. 
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